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#carta

Abbati Giuseppe

Castelletto di Cuggiono, classe 1973
Sono frammenti emotivi che danzano, si accumulano, si disperdono, si fanno beffa del tempo più reale della realtà. La loro complessità e il loro apparente non senso, giorno dopo giorno, formano quella che chiamiamo esistenza. È con quello che hai e non con quello che vorresti, che si fanno dei quadri.

MANIFESTO

«Non dimenticate che non siete proprio così vuoti come pensate». Con queste parole Marcel Duchamp nel 1946 spiegava, durante un’intervista newyorkese, cosa comunicasse l’esperienza Dada.

Oggi, quella stessa affermazione può ben sintetizzare il rapporto che Giuseppe Abbati instaura con le immagini. Riviste e giornali sfogliati e presto impilati, dimenticati e infine scartati. A loro Abbati si avvicina, ricordandoci che a tutto si può dare un nuovo orizzonte e una nuova prospettiva, perché non tutte le cose sono “così vuote come pensiamo”. A volti, corpi, occhi, oggetti e ambienti è così concessa una seconda possibilità: nascono figure, forme e luoghi trasfigurati, alla ricerca di una propria identità. Non a caso, l’occhio, elemento per eccellenza nella definizione del volto, rimane sempre indefinito, costellato da centinaia di frammenti di carta.

Ci crediamo “uno” e invece siamo “molti”, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi. Lavori per accumulazione e sottrazione: carta ritagliata dai giornali, soprattutto quelli di moda. La sua ricerca è impostata con grande rigore metodico. Crea le opere per serie, tutte scrupolosamente inventariate. Quando emerge un tema che lo affascina, si concentra su di esso: nascono così gli Omaggi dedicati ai grandi artisti del passato, i Busti contemporanei che dialogano, per scelta della posa, con i tipici ritratti a “mezzo busto” del Rinascimento italiano. 

In una delle serie più originali, Abbati crea immagini dove forme e oggetti non sono incollati né su tela né su carta. I suoi strumenti di lavoro sono esclusivamente lo scotch e la plastificazione. La colla non è ammessa, soltanto qualche appunto a matita o con colori acrilici. A questa tecnica ha dato la definizione inedita, colta e minuziosa di Sotchage. Questo procedimento, che non necessita di lunghi tempi di asciugatura, gli consente di dare seguito a una fremente esigenza creativa. Così, «non prigioniero della sacralità e delle liturgie dell’immagine d’arte»1Flaminio Gualdoni, 2017 elimina totalmente il supporto. È l’immagine sola che conta e che vive nello spazio.

PERCORSO

In un’antica casa di corte del Cinquecento affacciata sul Naviglio Grande di Castelletto di Cuggiono (Milano), Giuseppe Abbati ha realizzato la sua casa e il suo studio. Ogni spazio è costellato di riviste o degli infiniti pezzi che di quelle ne rimangono: «ritaglio, assemblo e incollo frammenti di immagini della quotidianità: voglio costruire una nuova realtà, mettendo insieme due opposti, demolendo e ricostruendo contemporaneamente».

Nell’officina meccanica di suo padre nasce tutto. Siamo negli anni Settanta e, come solo la fantasia dei bambini sa fare, si diverte ad assemblare i pezzi delle automobili e ne rimane affascinato. Osserva quotidianamente la metamorfosi di un oggetto reale che si trasforma in qualcos’altro. D’altronde chi non assemblerebbe un parafango, due dischi e qualche ammortizzatore per vedere riprodotto un volto elettrizzato di qualche stravagante passante?

A riparare automobili non avrebbe avuto probabilmente un futuro ricco di successo. Nella via dell’arte ha, invece, trovato la sua professione. Negli anni Novanta inizia a studiare da autodidatta l’arte contemporanea. Frequenta mostre, si confronta, attraverso la lettura o l’osservazione delle opere, con grandi maestri: Picasso, Dubuffet, Klein, Schiwitters, Rauschenberg, Kolár, Höch, Munari, Hamilton. Tutti artisti che hanno in un certo senso a che fare con la destrutturazione delle immagini. Contemporanemente lavora in un’azienda che stampa stoffa, come addetto alla produzione dei colori ed è qui che impara a ottenere e dosare sfumature e tonalità.

Anche se nasce anagraficamente negli anni Settanta, è artisticamente – come lui stesso dice – molto più giovane. Nel 2005 l’incontro con Daniele e Francesco Oppi alla Cascina del Guado segnano il suo percorso umano e artistico. Nel 2007 battezza una serie di opere intitolate Implosioni che costituisco la radice del suo lavoro.

Il pubblico ha potuto scoprire le sue opere in mostre personali e collettive. Tra le più significative si ricorda l’esposizione Alle Fonti dell’Arte, a cura di F. Oppi con l’intervento di P. Daverio (Milano, 2018); Rigenerazione, una mostra a cura della Galleria BreraUno (Corbetta, 2018). Sono preziose testimonianze del suo lavoro i testi critici di F. Gualdoni, F. Oppi, A. Clementi, F. Scarioni.

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